venerdì 19 luglio 2013

Alive di Frank Wilson Marshall

Trama  (fonte Wikipedia)
Il film narra la storia di una squadra uruguaiana di rugby (accompagnata anche da alcuni familiari) che, il 13 ottobre 1972, si trovava in volo sul Fokker Fairchild FH-227D schiantatosi fatalmente sulla cordigliera delle Ande, nel tentativo di raggiungere il Cile. Gli estremi sforzi compiuti dai 33 iniziali sopravvissuti, poi ridottisi a 16, verranno compensati, nel finale del film, dall'eroica impresa di Fernando Parrado e Roberto Canessa, i quali riuscirono ad attraversare le Ande e raggiungere il Cile, dove poterono finalmente chiedere aiuto.
L'aspetto più sconvolgente della storia raccontata nel film è che i sopravvissuti allo schianto aereo decidono, per non morire di fame, di cibarsi dei corpi dei loro compagni morti.




Un Ethan Hawke ventitrenne è una delle principali ragione per cui dovete vedere questo film. Per il resto è un film forte, soprattutto per le scene iniziali dello schianto aereo, per i numerosi feriti e gli atti di cannibalismo che hanno diviso i "sopravvissuti".

Ricerca sull'incidente aereo avvenuto sulla Cordigliera delle Ande il 13 ottobre 1972:


Dopo essersi tuffato nelle nuvole mentre stava ancora sorvolando le montagne (zona successivamente identificata tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca), il Fairchild incontrò una immane turbolenza che lo fece scendere improvvisamente di qualche centinaio di metri. A questo punto le nuvole si erano diradate e sia il pilota che i passeggeri si accorsero di volare in mezzo alle cime vicinissime delle Ande. Per rimediare all'errore, Lagurara spinse al massimo i motori e cercò di prendere quota, ma ormai era troppo tardi: alle 15.31, a circa 4200 metri di altitudine, l'aereo colpì la cima di una montagna con l'ala destra, che nell'urto si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo, all'altezza della cambusa; la coda quindi precipitò, portando con sé alcuni passeggeri, mentre l'elica del motore destro perforò la fusoliera. L'aereo, senza ala né coda, scese rapidamente di quota e colpì un altro spuntone roccioso perdendo anche l'ala sinistra, mentre la fusoliera continuava a precipitare, toccando infine terra di piatto su una ripida spianata nevosa, di pendenza simile alla sua traiettoria. L'aereo scivolò lungo il pendio per circa due chilometri, perdendo gradualmente velocità fino a fermarsi improvvisamente nella neve con un violento impatto. La coda terminò invece la sua corsa più in basso lungo lo stesso pendio.
Il Fairchild si era fermato alla quota, successivamente verificata, di 3657 metri; tuttavia l'altimetro, sfasato dall'incidente, segnava invece un'altitudine di 2133 metri. Ciò fu determinante nello svolgimento degli avvenimenti successivi, insieme alle informazioni date dal pilota Lagurara prima di morire a causa delle ferite riportate nello schianto: le sue ultime parole, ripetute più volte, furono infatti: «abbiamo superato Curicò». Quindi, basandosi su queste due informazioni (posizione e quota), errate, ma convergenti, i sopravvissuti credettero di trovarsi oltre la cresta della Cordigliera, nella zona pedemontana già in Cile. Si trovavano invece a est dello spartiacque andino, ancora in Argentina, e per la precisione nel territorio municipale di Malargüe (Dipartimento di Malargüe, Provincia di Mendoza). Di qui la speranza dei sopravvissuti di portare a termine con successo una spedizione verso ovest alla ricerca di aiuti.


Delle 45 persone a bordo, dodici morirono nell'impatto: Gaston Costemalle, Julio Ferradas (pilota), Alexis Hounié, Guido Magri, Ramon Martinez (equipaggio), Esther Nicola, Francisco Nicola (medico della squadra), Eugenia Parrado, Ovidio Ramirez (equipaggio), Daniel Shaw, Carlos Valeta, Fernando Vazquez. Alcuni furono catapultati fuori dopo il distacco della coda (Martinez, Ramirez, Costemalle, Hounié, Magri e Shaw), altri morirono per la violenza dell'impatto (Ferradas, i coniugi Nicola, Eugenia Parrado), uno per le gravi ferite (Vazquez). Uno di loro (Valeta), sbalzato dall'aereo durante la scivolata, scendendo a piedi il pendio nel tentativo di raggiungere gli altri sopravvissuti, scivolò sulla neve fresca e ruzzolò a valle. Altri cinque morirono nel corso della notte e del giorno successivo (Panchito Abal, Julio Martinez-Lamas, Felipe Maquirriain, Graciela Mariani e il co-pilota Dante Lagurara).
Alcuni sopravvissuti avevano gambe rotte e ferite di vario genere e nessuno disponeva di vestiti adatti per resistere a quelle temperature. I primi soccorsi vennero prestati da Roberto Canessa e Gustavo Zerbino, studenti universitari di medicina, rispettivamente al secondo e al primo anno di corso, senza alcun materiale medico, che poterono quindi solo consigliare ai feriti di mettere gli arti fratturati nella neve, per alleviare il dolore e limitare il gonfiore, e medicare come potevano gli altri.
Incredibile quanto accadde a uno degli eroi della vicenda (che avrebbe partecipato alla spedizione in ricerca di aiuto) Nando Parrado: creduto morente, venne lasciato tutta la prima notte all'addiaccio verso lo squarcio della fusoliera (il punto più freddo), per poi scoprire il giorno dopo che era ancora vivo. Ripresosi, rimase accanto alla sorella Susana fino a quando lei non spirò, otto giorni dopo l'incidente, a causa delle gravi lesioni interne.
Per sopravvivere al freddo della notte (la temperatura poteva arrivare anche a -30), i sopravvissuti alzavano ogni sera una precaria barriera di valigie per chiudere la fusoliera dell'aereo nella parte posteriore squarciata, volta verso la salita del pendio.

Le ricerche, operate dal SAR del Cile (il servizio di soccorso aereo del paese), ebbero inizio non appena l'aereo venne dato per disperso. Riascoltando le registrazioni delle comunicazioni con la torre di controllo di Santiago, i comandanti García e Massa ipotizzarono correttamente l'errore di rotta commesso dal pilota e scandagliarono un'ampia zona delle Ande, a nord del passo del Planchón. L'area di ricerca comprendeva anche la zona ove l'aereo era precipitato; purtroppo, agli aerei da ricognizione dei soccorritori non fu possibile localizzare il luogo dell'incidente, a causa del fatto che la fusoliera bianca si mimetizzava nella neve e nella nebbia. Convinti che nessuno fosse sopravvissuto allo schianto e alle bassissime temperature notturne, e timorosi di sprecare carburante costoso o perdere uomini a causa delle cattive condizioni meteorologiche, le autorità interruppero le ricerche dei sopravvissuti otto giorni dopo lo schianto. Anche i familiari fecero il possibile per cercare l'aereo, in alcuni casi con metodi non proprio ortodossi: alcuni di loro si rivolsero a un rabdomante il quale, davanti a una carta delle Ande, segnalò che l'aereo era precipitato a est del vulcano Tinguiririca. Informarono Carlos Paez Vilarò, che era andato in Cile per organizzare gruppi di ricerca per verificare le segnalazioni sull'aereo, il quale però disse che tale zona era già stata controllata dal SAR. Si rivolsero anche a un chiaroveggente, Gerard Croiset che, a più riprese, comunicò loro di aver "visto" l'aereo precipitato a circa 60 km dal Passo del Planchon (a nord o forse a sud), con il muso schiacciato, senza ali e percepiva vita all'interno di esso. Le ricerche di Paez, con l'aiuto di alcuni genitori, si concentrarono a sud del Planchon, dalla parte opposta rispetto a dove giaceva il Fairchild. A mano a mano che passavano i giorni, i familiari cominciarono a rassegnarsi all'idea che nessuno fosse sopravvissuto e quindi poco alla volta abbandarono le ricerche, tranne Paez, che continuò ostinatamente a cercare per oltre un mese, percorrendo sentieri a cavallo, a piedi, organizzando ricerche con piccoli aerei messi a disposizione da ricchi cileni. In Cile ormai era conosciuto come "il matto che cercava il figlio", ma anche lui dovette rinunciare alle ricerche e tornare in Uruguay.

Nei primi giorni successivi alla sciagura, i pasti dei sopravvissuti consistevano in un sorso di vino versato in un tappo di deodorante e un assaggio di marmellata per pranzo e un quadratino di cioccolato per cena; le razioni erano rigidamente distribuite dal capitano della squadra Marcelo Perez, per far durare il più a lungo possibile il cibo disponibile. Il cibo e le bevande presenti sull'aereo erano stati acquistati dai passeggeri all'aeroporto di Mendoza, prima dell'imbarco. Constatato che masticare la neve non dissetava ma gelava la bocca, Fito Strauch ebbe l'idea di utilizzare le lamiere di alluminio recuperate dall'interno dei sedili come specchi ustori, per incanalare il calore del sole e sciogliere la neve. Canessa e Maspons riuscirono a creare delle amache sospese nella fusoliera, utilizzando cinghie e aste metalliche non comodissime, ma di grande aiuto per i feriti agli arti inferiori, come Rafael Echavarren e Arturo Nogueira, anche se tale soluzione li riparava dagli urti involontari degli altri compagni, ma non dal freddo, che comunque entrava nella fusoliera, nonostante la barriera di valigie.
I sopravvissuti si divisero in gruppi "di lavoro": Canessa Zerbino e Liliana Methol facevano parte del gruppo medico; il secondo gruppo era assegnato alla fusoliera, da tenere pulita e gestire le fodere dei cuscini utilizzate come coperte, far tenere fuori le scarpe dall'interno ecc. Di questo gruppo facevano parte Harley, Paez, Storm e Nicolich; il terzo gruppo era dei fornitori d'acqua, che dovevano trovare neve incontaminata e trasformarla in acqua. Terminate le ultime razioni, e dopo aver appreso da una radiolina a transistor trovata a bordo dell'interruzione delle ricerche, i sopravvissuti furono costretti dalle circostanze, non senza dubbi, eccezioni e ripensamenti, a cibarsi dei cadaveri dei loro compagni morti, che erano stati sepolti nella neve vicino all'aereo. Non fu una decisione facile, né immediata: se all'inizio tale pensiero fu solo di qualcuno, a poco a poco la discussione si allargò a tutto il gruppo. Quando tutti i sopravvissuti ne parlarono apertamente, la discussione si protrasse dalla mattina fino al pomeriggio inoltrato, dibattendo tra questioni morali, religiose e laiche, fino a quando alcuni di loro riuscirono a reprimere la ripugnanza e a sormontare un tabù primitivo. A poco a poco, nelle ore successive quasi tutti accettarono di rompere tale tabù, esclusivamente per spirito di sopravvivenza.

Altri otto dei sopravvissuti allo schianto morirono la notte del 29 ottobre, quando una valanga travolse la fusoliera nella quale dormiva il gruppo: Daniel Maspons, Juan Carlos Menendez, Gustavo Nicolich, Marcelo Perez, Enrique Platero, Carlos Roque (equipaggio), Diego Storm. Morì anche Liliana Methol, l'unica donna del gruppo rimasta e l'ultima a infrangere il tabù, solo perché col marito aveva fatto progetti per il futuro: non solo rivedere i quattro figli, ma anche averne un altro.
La fortuna assistette Roy Harley, l'unico a non essere seppellito dalla valanga, insieme a Echavarren e Nogueira, che però non poterono essere d'aiuto. Harley, infatti, si alzò in piedi non appena sentì un forte rumore all'esterno e subito dopo si trovò la neve fino alla vita; cominciò freneticamente a scavare per liberare la persona più vicina (la neve in pochi minuti si trasformò in una sottile lastra di ghiaccio), che a sua volta fece la stessa cosa non appena fuori dalla neve. Purtroppo, alcuni di loro vennero raggiunti troppo tardi. Harley fu doppiamente fortunato, perché quella sera aveva cambiato il proprio posto con Diego Storm.
Anche in questo caso Parrado rischiò di morire sepolto dalla neve fresca e fu tra gli ultimi a essere liberato, parecchi minuti dopo la valanga. Parrado trasse allora l'incrollabile convinzione di essere predestinato a rimanere in vita per portare in salvo i compagni: era sopravvissuto alla valanga e allo schianto, in quanto pochi attimi prima dell'incidente aveva cambiato il proprio posto in aereo con Abal, che voleva vedere il panorama. Si convinse maggiormente che l'unico modo di sopravvivere sarebbe stato attraversare le Ande e andare in cerca di aiuto. Tale idea gli era balenata in testa subito dopo il decesso della sorella.
I superstiti della valanga dovettero rimanere all'interno della fusoliera per ben tre giorni, perché vi era in corso una tormenta, come scoprirono quando riuscirono a fare un largo foro di uscita attraverso la cabina dei piloti, dal quale potevano verificare le condizioni esterne e soprattutto avere ossigeno. In quei tre giorni furono obbligati a rimanere all'interno della fusoliera quasi piena di neve, costretti a muoversi pochissimo, dormire quasi in piedi, a fare i bisogni fisiologici sul posto e a nutrirsi con i corpi dei compagni morti nella valanga. Una seconda valanga colpì la fusoliera, ma essendo già coperta dalla precedente, non provocò nessun danno. Al quarto giorno la tormenta cessò e i sopravvissuti finalmente uscirono, cominciando così a "sistemare" la fusoliera, portando fuori i deceduti, togliendo la neve, cercando di ripulirla, ovviamente con dispendio di energie preziose. Impiegarono otto giorni a rendere ancora "abitabile" la fusoliera. La valanga aveva certamente rafforzato e accelerato l'idea di organizzare una spedizione che si sarebbe diretta verso il Cile: i ragazzi, infatti, erano convinti che una volta scalato la montagna a ovest della fusoliera, avrebbero visto le verdi vallate del Cile e trovato civiltà e quindi i soccorsi.
Cominciarono così a scegliere i candidati per la spedizione, eliminando le persone ritenute più deboli (es. Methol non vedeva da un occhio, già da prima dell'incidente, Eduardo Strauch era molto debole perché si nutriva pochissimo, etc.). Parrado non fu neanche candidato: era talmente risoluto che se non fosse stato scelto, se ne sarebbe andato da solo. Per alcuni altri, anche se fisicamente erano idonei, dovevano essere sicuri che la loro forza d'animo non venisse meno. Quindi organizzarono delle spedizioni esplorative nei dintorni, per poter valutare i candidati, che fecero in diversi giorni. François e Inciarte si fermarono ogni dieci passi per fumare. Turcatti e Algorta riuscirono ad arrivare all'ala, ma quest'ultimo era molto indebolito. Paez, Harley e Vizintin riuscirono a reperire vari pezzi dell'aereo, senza trovare alcunché di utile, ma il ritorno, da fare in salita, fu molto duro, e solo dopo il tramonto riuscirono a raggiungere i compagni. Alla fine di queste prove, i componenti della spedizione furono Parrado, Canessa, Vizintin e Turcatti, ai quali vennero concessi privilegi quali mangiare di più, dormire dove, come e quanto volevano, essere esenti dai lavori quotidiani, anche se Parrado e Canessa li eseguivano, sebbene in minor misura. Inoltre, Parrado e Turcatti non abusarono mai della posizione acquisita. La spedizione sarebbe partita dopo il 15 novembre: i sopravvissuti erano convinti che dopo tale data il clima sarebbe migliorato, visto che l'estate si avvicinava ogni giorno di più. In quei giorni, Arturo Nogueira morì: le ferite alle gambe e alle caviglie peggiorarono e il suo fisico debilitato, in quanto si nutriva pochissimo, non resse. Fu un duro colpo per i ragazzi, persuasi che chi si era salvato dallo schianto e dalla valanga fosse destinato a tornare a casa. L'itinerario di viaggio fu contrastante: dalle informazioni in loro possesso il Cile si trovava a ovest, ma la bussola dell'aereo, rimasta intatta, indicava che la valle dove si trovavano era orientata a est. La loro ipotesi fu che la valle incurvasse intorno alle montagne verso nord-est e poi si orientasse verso ovest. Quindi decisero di andare verso est. Il 15 la spedizione fu pronta a partire: Parrado portò con sè una scarpetta rossa da bimbo, lasciando l'altra nella fusoliera con la promessa di ritornare a prenderla (le scarpette erano state acquistate dalla madre a Mendoza per il nipotino, figlio di Graciela, sorella di Parrado). La spedizione durò solo tre ore, a causa di una forte nevicata che aumentò di intensità, costringendo la spedizione a tornare indietro. Dovettero aspettare due giorni e nel frattempo, la salute di Turcatti peggiorò: qualcuno, inavvertitamente, gli aveva calpestato una gamba prima della partenza, lasciando un livido. Il livido si infettò e nonostante Canessa incise i foruncoli pieni di pus, Turcatti rimase con una gamba dolorante e zoppicante. Non poté più partecipare alla spedizione.
Il 17 novembre Canessa, Parrado e Vizintin ripartirono e i ragazzi rimasti nella fusoliera fecero scommesse e previsioni su quanto tempo avrebbero impiegato a raggiungere la civiltà e quindi la salvezza di tutti loro. Dopo circa due ore di cammino, i tre ragazzi raggiunsero la coda e per loro fu come trovare un tesoro: abiti puliti e un poco di cibo (zucchero, cioccolatini, pasticci di carne, rum, coca-cola). Quella notte, dormirono all'interno di essa. Il giorno dopo ripartirono dirigendosi sempre verso est. Ma in montagna le distanze sono ingannevoli e nel pomeriggio la piega che la valle doveva prendere verso ovest sembrava sempre più lontana; inoltre, Canessa aveva la sensazione che si stavano addentrando sempre più tra le montagne. La seconda notte la dovettero trascorrere all'aperto, scavando una buca nella neve, con temperature sempre più gelide col trascorrere delle ore, con il cielo sereno e mancanza di vento, coprendosi con le coperte che si erano portati e scaldandosi a vicenda, dormendo a malapena. Sapendo che un'altra notte come quella non l'avrebbero superata, soprattutto se il tempo si fosse guastato, decisero di tornare alla coda, recuperare le batterie che avevano trovato e portarle alla fusoliera, in quanto Roque nei primi giorni aveva detto loro che con esse si poteva far funzionare la radio. Non riuscirono a portare le pesanti batterie alla fusoliera, visto che il ritorno era tutto in salita, per cui decisero di fare l'opposto: smontare la radio e portarla alla coda. Nella valigia che usarono come slitta misero vestiti, sigarette, medicinali da portare ai compagni.
Durante la spedizione, nella fusoliera il morale era alto, perché pensavano che la salvezza fosse molto vicina. Inoltre, erano contenti di avere più spazio per dormire e soprattutto non avevano contatti con Canessa e Vizintin, in quel periodo irritanti e prepotenti. L'atmosfera allegra, però, scomparve, in quanto Rafael Echavarren spirò, a causa della cancrena alle gambe e della forte denutrizione. Inoltre, il giorno dopo, la spedizione tornò. Canessa, Parrado e Vizintin raccontarono la loro avventura, dell'impressione che la direzione fosse sbagliata, delle batterie e del materiale che avevano trovato nella coda. Il 23 novembre Canessa e Parrado si accinsero a togliere la radio dalla cabina di pilotaggio, convinti che con l'aiuto di Harley avrebbero potuto farla funzionare. Harley era considerato l'esperto, perché aveva aiutato un amico ad assemblare un impianto stereo, ma lui era convinto che non sarebbe mai riuscito a farla funzionare. Anche Algorta lo pensava, anche se non disse niente. Canessa e altri, invece, erano certi del funzionamento. Una volta estratta la radio e l'antenna e nonostante i tentennamenti di Harley e di Canessa (molto titubante a riprendere a camminare nella neve), la spedizione ripartì alla volta della coda.
La ripartenza della spedizione portò ancora una ventata di buon umore, per gli stessi motivi della precedente partenza. Non poterono però rimanere passivi in attesa degli eventi: il cibo cominciava a scarseggiare. Ossia, il problema non era avere le provviste, ma trovarle: le persone decedute nello schianto erano state seppellite da uno spesso strato di neve in seguito alle due valanghe, e rimanevano una o due vittime della valanga a disposizione. Inoltre, il disgelo era realmente iniziato, per cui i cadaveri in superficie, appena coperti da un lieve strato di neve, comiciarono a imputridire, soprattutto nelle ore più calde della giornata.
I quattro ragazzi, una volta arrivati alla coda, passarono la giornata a riposare e a frugare nelle valigie che il disgelo a poco a poco riportò alla luce e che nel giro precedente non videro. In una valigia Parrado trovò una macchina fotografica, che sarà usata per le fotografie che hanno immortalato i drammatici momenti vissuti. Dopo tre giorni di lavoro intorno alla radio, Parrado e Vizintin dovettero tornare alla fusoliera, perché il cibo che avevano portato con sé non era sufficiente. Una volta alla fusoliera dovettero cercare loro di disseppellire un cadavere, perché gli altri stavano diventando sempre più deboli. Dopo due giorni tornarono alla coda, dove constatarono che Canessa e Harley erano riusciti a fare i collegamenti tra radio e batterie e radio e antenna, ma non captarono nessun segnale. Pensando che l'antenna fosse difettosa, ne crearono una artigianale. Quando collegarono tale antenna a una radio a transistor che avevano con loro riuscirono a captare alcune stazioni del Cile, dell'Argentina e dell'Uruguay. Ma quando provarono a collegarla alla radio del Fairchild, non captarono nulla. Nel ricollegarla alla radiolina a transistor, udirono anche un notiziario che comunicava che un Douglas C-47 avrebbe ripreso le ricerche del Fairchild (erano le ricerche personali di Carlitos Paez e di alcuni genitori). Harley e Canessa erano felicissimi, Vizintin non ebbe particolari reazioni, Parrado disse che anche se le ricerche erano riprese non era certo che li avrebbero trovati. Rimase sempre dell'idea che se la radio non avesse funzionato, sarebbe partito per l'ovest, direzione Cile. Vizintin staccò il materiale intorno a quello che era stato l'impianto di riscaldamento del Fairchild. Era un materiale leggero che tratteneva il calore e pensò di farne una specie di sacco a pelo, che sarebbe servito per le notti che avrebbero eventualmente dovuto affrontare.
Dopo otto giorni passati nella coda, visti gli inutili tentativi, decisero di tornare alla fusoliera, anche perché il disgelo stava creando dei problemi di stabilità della coda. Harley diede sfogo a tutta la sua frustrazione prendendo a calci e facendo a pezzi la radio che avevano così faticosamente costruito. Il percorso per tornare alla fusoliera era tutto in salita e Harley, molto demoralizzato e fisicamente più debole (non aveva ricevuto lo stesso trattamento degli altri), fece sempre più fatica al punto tale da volersi fermare e lasciarsi andare. Fu Parrado che non lo abbandonò, incitandolo, esortandolo, insultandolo e sorreggendolo con molta fatica, riuscendo a portarlo fino alla fusoliera.
La radio non era compatibile con la tensione delle batterie: i giovani non sapevano che non poteva essere alimentata con la corrente continua a 24 volt delle batterie, ma richiedeva un sistema di alimentazione più complesso, basato sull'uso di alternatori azionati dal movimento dei motori dell'aereo, a una tensione alternata di 115 volt.

Canessa rimase colpito dallo spettacolo che si presentò al ritorno: i suoi compagni emaciati, deboli, stanchi e sfiduciati. Il caldo dell'estate in arrivo li portava a passare la parte centrale della giornata all'interno della fusoliera e i compiti attribuiti erano svolti sempre più con lentezza, non solo per i fisici debilitati. Addirittura, Canessa notò il "disordine" che ormai regnava all'esterno della fusoliera. Inoltre, la frustrazione e la tensione continuavano ad aumentare: i battibecchi erano quotidiani ma non si protraevano a lungo, perché solo l'unità del gruppo avrebbe dato loro la possibilità di salvarsi. Anche i rosari recitati tutte le sere non per tutti avevano ancora lo stesso significato: se all'inizio del disastro era un modo per chiedere l'intercessione divina per la salvezza, per alcuni di loro era diventato un modo per prendere sonno, per altri un modo per passare il tempo, anche se per la maggioranza il rosario rimase un gesto religioso cui non potevano rinunciare.
Ciò nonostante, Canessa fu molto titubante a riprendere il discorso della spedizione, sperando che il C-47 li trovasse. Gli altri, però, furono irremovibili, anche perché convinti che dopo tanti giorni, le ricerche erano orientate al ritrovamento di corpi, non di persone vive. Cominciarono così a cucire il sacco a pelo (con il materiale portato da Vizintin dalla coda) che li avrebbe protetti durante le notti. Tuttavia, una volta terminato il sacco, Canessa continuò a prendere tempo: la situazione era drammatica, ma la fusoliera era una "certezza" rispetto all'incognita della spedizione. Continuò a trovare scuse puerili, tanto che Fito Strauch ne parlò con Parrado, dicendo di essere disposto a partire lui al posto di Canessa. La situazione si sbloccò il 10 dicembre, quanto Turcatti morì: l'infezione alla gamba peggiorò ed era terribilmente debilitato, perché una volta rinunciato alla spedizione si nutrì pochissimo e si erano formate piaghe da decubito. Decisero così di preparare la spedizione finale e, la sera prima della partenza, Parrado disse ai cugini Strauch di utilizzare anche i corpi della madre e della sorella, se fossero rimasti senza viveri.
La speranza dei sopravvissuti di portare a termine con successo una spedizione verso ovest alla ricerca di aiuti si fondava sulle indicazioni errate dell'altimetro e del pilota Lagurara. Ritenendo di trovarsi in Cile, nella zona pedemontana oltre le cime delle Ande, credevano che il ripido pendio visibile verso ovest fosse l'ultima salita oltre la quale si trovavano le pianure del Cile. Era invece il fianco est di uno dei monti dello spartiacque tra Cile e Argentina; ciò significava che oltre quel pendio c'erano in realtà ancora montagne e montagne. Se i sopravvissuti lo avessero saputo avrebbero cercato la salvezza camminando in direzione est, verso le valli dell'Argentina; il cammino in quella direzione sarebbe stato tutto in discesa e molto meno ripido. Inoltre, e anche questo i sopravvissuti non potevano saperlo, a meno di 10 km a est dal luogo del disastro si trovava l'hotel rifugio estivo Termas; pur essendo chiuso in quel periodo, conteneva viveri e legna da ardere.
Così, il 12 dicembre 1972, circa due mesi dopo il disastro, Parrado, Canessa e Vizintín diedero il via alla nuova spedizione per raggiungere il Cile a piedi. Per l'occasione, era stato appositamente cucito uno speciale "sacco", ricavato dal materiale isolante della coda dell'aereo, per ripararsi dal freddo notturno. Impiegarono quasi tre giorni (invece di uno solo previsto) per raggiungere la cima del pendio (ad un'altitudine paragonabile a quella del Monte Bianco). Il primo ad arrivare fu Parrado, seguito da Canessa: si accorsero allora che la realtà era diversa da quella che avevano immaginato e che la distanza sarebbe stata molto superiore a quanto preventivato.
Decisero quindi che Vizintín sarebbe tornato all'aereo, perché i viveri che si erano portati appresso sarebbero bastati solo per due persone.


Dopo la separazione da Vizintin, Parrado e Canessa camminarono per altri sette giorni. Dalla prima cresta era sembrato loro di vedere in lontananza, a più di dieci chilometri di distanza, una valle tra le montagne; si diressero quindi in quella direzione sperando di trovare il corso di un fiume che li avrebbe condotti più in fretta verso zone abitate. Riuscirono effettivamente a scendere, con enorme difficoltà, nella valle scavata tra le montagne dal Rio Azufre; percorsero l'ultimo tratto verso il fiume lasciandosi scivolare a mo' di slitta. Raggiunto il corso d'acqua, Parrado e Canessa ne seguirono per alcuni giorni la riva sinistra, prima nella neve e poi, man mano che scendevano di quota, tra le rocce. Incontrarono i primi segni di presenza umana: i resti di una scatoletta di latta e poi, finalmente, alcune mucche al pascolo. Pur sapendo di essere ormai vicini alla salvezza, si fermarono, esausti e con Canessa che ormai non sembrava più in grado di proseguire. Quella sera, mentre riposavano sulla riva del fiume, a Parrado sembrò di scorgere in lontananza, al di là del Rio Azufre ingrossato dallo scioglimento delle nevi, un uomo a cavallo. Urlarono per richiamarne l'attenzione, ma l'uomo si allontanò dopo aver gridato qualcosa che non riuscirono a comprendere. Tuttavia, il giorno dopo videro tre uomini a cavallo che li guardavano sorpresi dall'altra parte del fiume; i due giovani tentarono di urlare chi erano e da dove arrivavano ma, a causa del rumore dell'acqua del torrente, non riuscirono a farsi capire. Allora uno dei tre uomini, il mandriano Sergio Catalán, scrisse su un foglio di carta:
(ES)
« Va a venir luego un hombre a verlos. ¿Que es lo que desean? »
(IT)
« Più tardi arriverà un uomo a incontrarvi. Cosa desiderate? »
(Sergio Catalán)
Il mandriano arrotolò il biglietto attorno a un sasso e lo lanciò dall'altra parte del fiume.
Parrado a sua volta vi scrisse con un rossetto da labbra il seguente messaggio (vedi figura):
(ES)
« Vengo de un avión que cayó en las montañas. Soy uruguayo. Hace 10 días que estamos caminando. Tengo un amigo herido arriba. En el avión quedan 14 personas heridas. Tenemos que salir rápido de aquí y no sabemos como. No tenemos comida. Estamos débiles. ¿Cuándo nos van a buscar arriba?. Por favor, no podemos ni caminar. ¿Dónde estamos?. »
(IT)
« Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell'aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo? »
(Fernando Parrado)
Parrado aggiunse inoltre sul retro del foglio un'ultima nota: ¿Cuando viene?, (Quando arriva?).
Scritto il biglietto, Parrado lo riarrotolò intorno a un sasso e lo lanciò a Catalán. Raccolto il sasso e letto il biglietto l'uomo sobbalzò e fece il gesto di aver capito e che avrebbe cercato aiuto. Prima di lasciarli, il mandriano lanciò loro alcune pagnotte che aveva con sé, che Parrado e Canessa divorarono immediatamente. Catalán si diresse allora a cavallo verso ovest per raggiungere il posto di polizia del paese di Puente Negro. Poco dopo notò sul lato sud del fiume un altro dei mandriani che, come lui, tenevano il bestiame al pascolo in una malga nella località di Los Maitenes. Catalán lo informò della situazione e gli chiese di raggiungere Parrado e Canessa e di portarli a Los Maitenes, mentre lui sarebbe andato a Puente Negro.
Mentre finalmente Parrado e Canessa venivano soccorsi e portati nella malga di Los Maitenes, dove furono curati e nutriti, Catalán percorse il Rio Azufre fino alla confluenza con il Rio Tinguiririca; attraversato un ponte sul fiume, si trovò sulla strada che collegava San Fernando e Puente Negro alla località di villeggiatura delle Termas del Flaco; si fece dare un passaggio da un autocarro fino a Puente Negro dove avvertì i carabineros, che a loro volta avvertirono il Colonnello Morel, comandante del reggimento di truppe da montagna Colchagua (che era il nome della provincia) di stanza a San Fernando.


Il 23 dicembre, il colonnello Morel avvertì le autorità che esistevano dei superstiti al disastro del 13 ottobre; lo stesso giorno partì da Santiago una spedizione di soccorso con due elicotteri Bell UH-1 Iroquois.
Dopo aver fatto tappa a San Fernando, i soccorritori si diressero verso Los Maitenes, nelle cui vicinanze incontrarono gli uomini a cavallo che portavano Parrado e Canessa verso San Fernando. Parrado decise di salire sull'elicottero per dirigere i soccorsi fino alla carcassa dell'aereo e portare in salvo i suoi compagni. Era già pomeriggio e le condizioni atmosferiche proibitive perché proprio in quelle ore del giorno i venti nelle Ande soffiano con maggiore violenza, e fu solo grazie alla maestria dei piloti (tra cui il pilota del presidente cileno Salvador Allende) che i due elicotteri resistettero alle forti raffiche e alle micidiali correnti ascensionali.
Il problema, una volta arrivati sul luogo del disastro, era come caricare i superstiti: la ripidità del pendio non consentiva l'atterraggio, i due elicotteri dovettero attendere in volo stazionario orizzontale e rasenti al suolo per il tempo necessario affinché una parte dei superstiti potesse salire a bordo. Non fu possibile portare in salvo tutti i sedici sopravvissuti; alcuni alpinisti e un infermiere rimasero sul posto fino alla mattina seguente, quando vennero tutti raccolti da una seconda spedizione di soccorso. Gli alpinisti, oltre ai mandriani di Los Maitenes, furono i primi a conoscere dalla bocca dei superstiti come erano riusciti a sopravvivere.
Vennero tutti ricoverati in ospedale con sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione, ma si trovavano comunque in condizioni di salute migliori di quanto si sarebbe potuto prevedere, nonostante alcuni avessero perso fino a 40 kg.

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